Sedici anni

Poco prima di compiere sedici anni, ho fatto l’amore per la prima volta. Non ero tra i migliori candidati, in questo senso. Alcuni miei compagni di classe, e tanti migliori amici, sembravano molto più portati di me per questo genere di attività. Ma fui il primo, probabilmente, in questo senso. Mi ero innamorato di una mia compagna di classe – forse qualcosa del tipo “amor che a nulla amato amar perdona”, perché fu lei, molto più esperta di me (dopo avermi baciato, con poco buon gusto mi aveva detto che ero il ventiseiesimo, e il secondo più bravo), a iniziare e poi a condurre i giochi. Io, comunque, persi la testa. Il primo mese fu interlocutorio. A febbraio passammo il San Valentino insieme, mangiando una cioccolata calda in un bar del centro – anche allora aveva nevicato e tutto era così irreale e magico… Pochi giorno dopo la baciai per la prima volta.  A casa di un amico, dopo meno di due mesi, andammo nella camera dei suoi e con un procedimento lunghissimo, un interminabile preliminare, arrivai a fare quello che allora chiamavamo “petting pesante”… E mentre provo a ricostruire questa parte della mia vita, quella ufficiale, sento finalmente il pudore che si associa al sesso. Se penso a te, Enrico, posso dire senza nessun problema che una sera, credo nel 1993, ti sborrai in bocca, in macchina, parcheggiati in mezzo al nulla; che tu apristi la porta per sputare il mio sperma e che poi tornasti a riprendere in bocca il mio cazzo, per tirare su quello che era rimasto. Di lei, invece, non riesco a dire quasi nulla. E’ questo ciò che distingue l’amore dal sesso? Oppure si tratta di una convenzione? A maggio, comunque, feci l’amore con lei. Era la prima volta per entrambi. Eravamo giovanissimi. I nostri corpi sembravano essere stati ideati solo per fare quello. Prendo un po’ di coraggio: glielo mettevo tra le tette che lei stringeva forte fino a farmi venire; sempre in maggio, pochi giorni dopo averlo fatto per la prima volta, glielo misi dietro, nella macchina dei miei parcheggiata in garage. Volevamo provare ogni cosa ed era tutto così semplice e naturale! La freddezza dei nostri incontri, Enrico, quei gesti trattenuti, l’assoluta mancanza del sudore (l’ingrediente fondamentale del fare l’amore), i silenzi, l’assenza perfino di un’ipotesi di bacio erano distanti, altrove, non mi riguardavano più. Tu non eri stato altro che un’evoluzione sofisticata delle seghe che mi facevo al cesso da solo; lei, invece, era l’Amore. Andavamo a prenderci un gelato vicino a casa e stavamo seduti su una panchina a sbaciucchiarci, a coccolarci, a prometterci cose impossibili. Le facevo regalini e lei ne faceva a me. Studiavamo insieme. Le facevo foto mentre studiava, poi le stampavo e gliele davo. Quando la sera ognuno tornava a casa sua, ci telefonavamo e rimanevamo a parlare per una o due ore. Eravamo inseparabili, e lo fummo, tra alti e bassi, per più di dieci anni. Un’unica entità.
Sebbene fossimo giovani, iniziammo subito a parlare di matrimonio (con il senno di poi, troppo presto). Seduti nello stesso giardino in cui, quasi trent’anni dopo, sarei tornato a passeggiare con Enrico, facemmo la lista degli invitati alle nostre nozze, arrivando perfino a disporre i parenti sui vari tavoli. Se ci penso ora, era tutto un po’ ridicolo: eppure, per noi era vero. Quando venivo con te, Enrico, imitavo qualcosa; quando ero con lei, invece, ero me stesso fino in fondo. Se ora ho pudore nel parlare di lei, e mi lascio andare quando racconto di te, è perché con lei non avevo alcun pudore, mentre con te c’era una distanza che non poteva essere riempita da nulla. La carezza ai capelli che ti avevo fatto a gennaio, il giorno dopo la grande nevicata, era poco più di un buffetto; i baci, le carezze, gli orgasmi, le ore passate sopra di lei, sotto di lei, a stringerle il seno, a leccarla e a farmi leccare, era ciò che realmente cercavo. Con lei, non ti pensavo più. Ogni tanto ti incrociavo sotto casa e per entrambi era come se non fosse mai successo nulla. Perfino nei miei ricordi eri sparito. Un giorno mi beccasti mentre uscivo con lei dal mio garage – un luogo che ci era appartenuto per un po’. Tu capisti e io fui in qualche modo contento che tu avessi visto, e capito. Per te non c’era più spazio – e non per una ripicca, una vendetta o chissà cosa. Proprio non ti pensavo. Esisteva solo lei. Sapevo, con certezza, che qualcosa era cambiato, che tu c’eri stato per un breve tratto della mia vita, e che in futuro non ci saresti stato più.
Ora, a distanza di tempo, posso dire che quello che pensavo e sentivo allora, era un sentimento sincero. Dal punto di vista sessuale, non c’era alcun paragone tra quelle due esperienze; dal punto di vista sentimentale e affettivo, il confronto era ancora più impietoso. Ne sono certo, non c’era alcuna finzione da parte mia: non ero un omosessuale che cercava di ricollocarsi nella parte di vita in cui le cose sono un po’ più comode, più semplici da gestire, meno drammatiche; non ero un borghesuccio che provava a ricostruire una famiglia simile a quella dalla quale proveniva, a ogni costo…. No. Io adoravo il corpo di lei. La desideravo con un’impellenza e una naturalezza sbalorditivi. E adoravo lei come persona, per quanto fosse capricciosa e talvolta infantile. Ogni cosa mi parlava di lei. Abbiamo esplorato la città mano nella mano; ci siamo seduti lungo un fiume e siamo stati là a coccolarci per delle ore. Passammo cinque mesi magnifici. Però a giugno, dopo la scuola, lei partì per le vacanze – i suoi erano pugliesi e ogni estate tornavano dai parenti. La accompagnai al treno, ed entrambi piangevamo mentre ci scambiavamo incredibili promesse. Ci scrivemmo decine e decine di lettere; e io e te, che abitavamo a una ventina di metri l’uno dall’altro, non ci “incontrammo” mai: qualche volta ti incrociavo, ci salutavamo, e poi basta. Sapevo di essere cambiato. Ad agosto, però, scoprii che mi sbagliavo.

L’altra sera

Tra il 2000 e il 2017 non ci siamo visti neppure una volta. Nel lungo arco di quegli anni, ho cambiato città, mi sono sposato, ho avuto figli, sono tornato nella nostra città, ho cambiato più volte lavoro; qualche volta – cinque o sei in tutto, quasi sempre d’estate –  ti ho cercato ma ho trovato, dall’altra parte del telefono, un muro di gomma. Intorno al 2007 ho rinunciato: tu sei diventato un insieme di ricordi dal quale, certe sere, andavo a pescare con eccitazione o nostalgia. Ti ho sognato spesso, un numero incredibilmente alto di volte. Di fondo, c’era la segretezza delle nostre carezze, il batticuore che accompagnava quei momenti dove c’era sempre il rischio di essere scoperti; e la distanza tra sentimenti e desiderio. Nei sogni, c’erano gesti privi di responsabilità.
Ti ho ritrovato su Facebook, al quale ti sei iscritto dopo molto tempo. Ho visto la foto del tuo profilo, il tuo viso 15 anni dopo l’ultima volta: più magro, più sofferto, e bello come un tempo. Cos’è la tua bellezza? Credo che molti, tra i quali io, vedano nei tuoi lineamenti qualcosa che sotto forse non c’è, un fraintendimento che ti regala molti punti immeritati. E’ il vantaggio che hanno le persone belle, gli attori, le modelle, qualche cantante. Ma mentre ti guardavo dopo tanto tempo, non avrei saputo dire se ancora ti desideravo… Provo a ricostruire tutti i momenti in cui ti ho voluto, e quelli in cui ti ho avuto, e mi rendo conto che è sempre esistito uno scostamento (talvolta un abisso) tra il mio desiderio e te, l’oggetto sul quale si concentrava. Avevo un mondo di idee, dentro, e tu eri la realtà che usavo come appoggio, il corpo al quale aggiungevo i miei incredibili sogni. Ma su questo ci tornerò più avanti, quando arriverò a parlare degli anni novanta, della fase malinconia dei nostri incontri. Per ora, rimane il fatto che, dopo aver passato 16 anni a toccarti e a farmi toccare (fino ad arrivare a tutto il resto), per i 17 anni successivi non ho più potuto incontrarti.
Quando sei apparso su Facebook, ti ho chiesto l’amicizia; tu hai accettato. Ci siamo salutati su Messenger ed è stato come se fossimo lontani un milione di chilometri. Ogni tanto ti auguravo buona domenica, buone feste, buone vacanze. Tu mi rispondevi gentilmente. E finiva qui. Nell’aprile dell’anno scorso, però, mi mandi il numero del tuo cellulare. Ti scrivo su Whatsapp, mi rispondi subito. Così siamo stati un pomeriggio a chattare – una conversazione che poi ho prudentemente cancellato. Cosa era successo, quel giorno? Perché improvvisamente sei tornato a parlarmi? Abbiamo ricordato qualcosa del passato, con sincerità e un po’ di malizia. Mi hai chiesto come mi andava, dal punto di vista sessuale (la domanda non era formulata in questi termini, ma il senso era questo). Te l’ho chiesto anch’io. Ci siamo ripromessi di rivederci.
Abbiamo continuato a mandarci messaggi per almeno un mese. Una sera in cui ero fuori città per lavoro, mi hai raccontato dei rapporti che avevi avuto negli ultimi anni, degli uomini che avevi conosciuto, perfino di quello che ti avevano chiesto. Abbiamo ricordato alcune delle cose che abbiamo fatto insieme. Infine ci siamo visti un sabato mattina, dalle tue parti, per un caffè. Erano passati diciassette anni. Tu, appena mi hai visto, mi hai detto che ero rimasto uguale all’ultima volta; non hai visto la mia barba grigia, i venti chili che avevo preso, i capelli persi. Abbiamo chiacchierato al bar, come due vecchie amiche. Il tuo sorriso, sempre bello, era più triste, più stanco, più sofferto di un tempo; ma abbiamo riso parecchio, e io, nonostante all’inizio mi sentissi tremare, sono stato simpatico. Siamo usciti dal bar e abbiamo fatto due passi. Abbiamo rivisto un giardino comunale nel quale andavamo da piccoli, da bambini. Alla fine, ci siamo trovati in un angolo nascosto, dietro una grande torre. Siamo stati in silenzio a guardare la strada che passava là accanto. Anni prima, quei secondi, quei minuti di silenzio in un luogo nascosto portavano sempre allo stesso risultato: uno di noi due si sarebbe avvicinato all’altro e in silenzio avrebbe iniziato a toccarglielo sopra i pantaloni. Ho aspettato; forse hai aspettato anche tu; non è successo niente.

Così abbiamo ripreso a vederci. Siamo stati a un funerale, a maggio, e poi siamo andati a berci un altro caffè. Siamo usciti qualche sera tra luglio e agosto. Abbiamo girovagato per il nostro vecchio quartiere, dove nessuno dei due vive più. Era tutto chiuso: i portoni, i cancelli, i luoghi segreti, tutto murato, chiuso, incatenato. Ho visto un po’ di luci accese nel vecchio appartamento in cui abitavo, e luci nel tuo, nel palazzo accanto. In certi momenti la nostalgia della nostra infanzia, di quando eravamo bambini, mi ha quasi sopraffatto, ma ho resistito, non ho pianto. Forse questo amore per il passato è ciò che davvero ci unisce. Una volta, in agosto, ti ho perfino portato a casa mia, quando la famiglia era in vacanza. Abbiamo fumato una sigaretta in terrazza. Ti ho mostrato la mia camera da letto, e poi ci siamo salutati. Avrei voluto, forse, e poi sono stato contento che non sia successo nulla, perché nulla sarebbe stato all’altezza del mio ricordo: non è male come scusa, no? In autunno non siamo mai riusciti a vederci; mi mancavi e qualche volta te l’ho pure scritto. Abbiamo continuato a mandarci messaggi, soprattutto stupidi meme e qualche foto maliziosa. Prima di Capodanno ti ho scritto per ringraziarti: tra le cose belle del 2017 c’eri anche tu; mi hai risposto con la stessa gentilezza: mi hai detto che sono tornato in un momento difficile della tua vita e che io ti ho aiutato a stare di nuovo bene con te (e questo, a dire il vero, è l’effetto che faccio più o meno in tutte le persone). L’altra sera, finalmente, siamo di nuovo usciti: passeggiata, birra in centro (io ero già alla terza, e ne ho preso una bella forte), giro per il nostro quartiere. E’ venuto fuori un elenco dei nostri amici morti – una contabilità che tu hai sempre tenuto – e quello dei genitori dei nostri amici che ci avevano lasciato. Tra i due, l’ottimista sono sempre stato io. Nel frattempo, ogni tanto appoggiavo le mie mani sulla tua schiena, con la scusa di farti vedere qualcosa o per farti entrare per primo in un locale, e tu forse te ne sei accorto perché ti sei fatto un po’ più vicino, solo un po’. Sotto le gambe del tavolo avrei voluto provare a sfiorarti con il piede – una cosa ridicola che avevo fatto diverse volte, negli anni novanta – ma ho desistito. Talvolta mi sembra di essere uno stalker, con te (però se non ti mando messaggi per due giorni, poi sei tu che mi cerchi…) Ogni tanto le nostre braccia, sotto i giacconi imbottiti, si sfioravano mentre camminavano insieme, fianco a fianco. Una minuscola forma di intimità. Mi hai anche chiesto se nell’ambiente che frequento ci sono molti gay.
“Qualcuno. Ho un caro amico con il quale ogni tanto vado a cena”.
“Ed è successo qualcosa?”
“No, non saprei come fare”.
“Tu sembri troppo eterosessuale, nessuno ci proverebbe con te”.
“Ma tu sai che non è così”.
“Sì, ma gli altri no”.
Questo è stato il discorso più intimo che siamo riusciti a fare in tutta la serata, proprio mentre eravamo davanti ai campanelli del condominio nel quale ho vissuto per tanti anni. A un certo punto mi hai detto che avevi freddo alle mani (un’informazione tecnica senza secondi fini) e io sono stato tentato di chiederti di farmi sentire quanto erano fredde, ma non l’ho fatto; non sono stato pronto o forse non lo volevo. Sono tornati quei pensieri di tanti anni prima, l’idea che io, in fondo, di tutto questo amavo l’attimo immediatamente prima che succedesse qualcosa, i momenti in cui ci si domanda se davvero sarebbe successo qualcosa…. Sono un idealista, un romantico, un sognatore; la carne è solo un pretesto. Chissà se poi è davvero così. Ci siamo salutati presto, poco prima di mezzanotte, con un bacio sulle guance, e mentre tornavo a casa ci siamo mandati qualche messaggio. Volevo ringraziarti della serata. Ti ho scritto che mi dispiaceva che le nostre passeggiate fossero così corte. Ti ho anche chiesto, un po’ scherzando e un po’ no, se secondo te avrei dovuto provarci con quel mio amico (una cosa che io comunque non avrei mai fatto); tu mi hai scritto “Non lo so, io non sono un rovina famiglie, di solito evito di avere relazioni con persone che hanno compagni o compagne”. Ti ho risposto, e tu avevi il telefono già spento. Buona notte, Enrico, alla prossima!

Tre momenti prima del cambiamento

Agli inizi del 1986 mi sono innamorato, ricambiato, di una compagna di classe. Era vero amore – durò più di dieci anni, tra alti e bassi. Eravamo giovani, lei aveva compiuto da poco 15 anni, io avevo solo qualche mese in più, ma nel giro di poche settimane, con una progressione inarrestabile, arrivammo a fare l’amore. Tra l’aprile del 1984, dal giorno della terrazza, fino a quel momento, io e te continuammo a vederci con una certa regolarità. Nonostante i dubbi, ero sostanzialmente sereno: i nostri rapporti, veloci, al limite della sveltina, e distanti – entravano in gioco solo le nostre mani e i nostri cazzi, mentre tutto il resto del corpo se ne stava per conto suo – erano un diversivo che avevo iniziato ad associare in modo abbastanza naturale alla mia età.
Iniziammo le superiori. Nuovi amici. Un primo timido innamoramento di una compagna di classe, tra marzo e maggio del 1985. I giri in centro, le feste, la tragica finale della Coppa dei Campioni, i compiti in classe (e gli ottimi risultati)… stavo fiorendo. Dopo un triennio terribile, alle medie, dove mi sentivo sempre fuori luogo (anche se probabilmente nessuno mi vedeva così), ora sentivo che in qualche modo stavo diventando interessante anche per gli altri. Ero brillante e sentivo di essere apprezzato. Ma in quella vita, c’era comunque spazio per te – uno spazio quieto, quasi un principio di routine. Esplorammo ulteriormente il quartiere: una volta lo facemmo sotto un albero che formava una specie di cupola, a pochi metri dalla strada. Eravamo rapidi, quando serviva. A quell’età non avevamo mai la casa libera – l’incontro nel mio salotto, nel mio bagno, era rimasto un episodio isolato – e non avevamo la macchina. Per questo, giravamo tra terrazze, garage, cantine, angoli bui, con un certo gusto per la sfida. E stavamo crescendo: piano piano, ci stavamo riempiendo di peli, e di muscoli. Perfino il suo sesso, mi sembrava così, stava diventando un po’ più grande. Qualche volta ti toccavo i testicoli; altre volte appoggiavo la punta del tuo cazzo sul mio buco dietro, ma senza convinzione. Sarebbe servita una passione diversa, probabilmente.
In quell’anno e mezzo, dunque, continuammo a vederci. Anche se credo che l’aspetto più rilevante di quel periodo (parlo di ciò che riguarda me e te) fu la continuità dei nostri incontri, ricordo tre momenti sopra tutti gli altri. Il primo: sei di sera, buio, forse novembre, all’aperto (vedevo le finestre delle cucine di alcune case a una cinquantina di metri da noi, oltre a un muretto di recinzione), entrambi nei nostri giacconi, tu dietro di me, con il tuo corpo che aderiva alla mia schiena, che mi masturbavi, io che te lo toccavo con la mano sinistra, di spalle – e venni velocemente: fino ad allora eri sempre tu il primo (avevi una rapidità, in questo, che assomiglia alla fretta e un po’ mi dispiaceva), ma quella volta, che buffo pensarci ora, sentii di aver vinto io. Vinto cosa? Non era una gara. Però ci tenevo. Non mi toccavi particolarmente bene, quasi come se non ti piacesse davvero, come se tu non riuscissi a immaginare cosa potesse farmi piacere. C’era qualcosa di meccanico, e di osseo, nella tua mano. Però imparai a venire velocemente: lasciavo che tu mi portassi fino all’orgasmo senza che fosse mai necessario un mio intervento. Il secondo: andai in vacanza con la mia famiglia per un mese e per tutto il tempo pensai a te. Ti volevo. Fu la prima volta che capii quanto mi fossero necessari i nostri incontri, quanto li desiderassi. In quella terra lontana, mi masturbai non so quante volte pensando a noi. Appena tornai a casa (era la fine di luglio del 1985) venni a cercarti. Andammo nel tuo garage, fine mattina. Per non so quale motivo, sentivo il bisogno di toccarti il sedere, di tenere le tue natiche tra le mie mani; e quando successe, fu diverso da come avevo immaginato: eri più muscoloso di quanto ti ricordassi. Non assomigliavi a una donna e quella fu la prima volta che ne provai dispiacere. Il terzo momento, forse il più bello. Inizio gennaio del 1986. Poche settimane dopo mi sarei innamorato della mia compagna di classe (e delle ripercussioni che questo ebbe su di noi ne parleremo presto) ma allora eravamo ancora io e te – tu rappresentavi tutto il  mio mondo “sessuale” (Shakespeare avrebbe detto il nord e il sud, l’oriente e l’occidente). Era domenica mattina. Nei giorni precedenti aveva nevicato tantissimo e la città era completamente ricoperta da una coltre di neve. Ma quella  mattina l’aria era tersa, il cielo azzurrissimo come succede solo in gennaio. Andammo a messa, credo, assieme a tutti gli altri amici. Passammo per il campo da calcio dove io giocavo (tu no, non avevi mai fatto sport, e in questo riconoscevo una tua inclinazione femminile) ed era tutto ricoperto di neve. Con gli altri, facemmo scoppiare un po’ di petardi – in fondo, avevo poco più di 15 anni – e ci tirammo qualche palla ghiacciata. Avevo il naso freddo. Prima di pranzo, però, ci staccammo dal gruppo con una scusa e andammo in una casa che la tua famiglia stava costruendo, a poche centinaia di metri da là. Dentro, c’erano carriole, badili. In una stanza a pian terreno, però, era stata ricavata una stanza piena dei piccoli attrezzi che tuo padre usava per il suo lavoro. C’era calduccio, là dentro. Era come quando si andava a sciare e poi ci si ritirava in qualche rifugio di montagna a bere un tè, lo stesso tepore buono. Volevo provare a masturbarci con i guanti che avevo ricevuto per Natale, delle manopole di pelle con il pelo dentro: non funzionò un granché, a dire il vero. Erano troppo larghi, e troppo spessi. Non riuscivamo ad avere presa. Ci venne da ridere e rinunciammo. Ma ti feci sedere su una sedia, con i pantaloni e gli slip abbassati; io mi tolsi i jeans e i boxer (anche quelli un regalo di Natale) e mi sedetti su di te, di fronte, mettendo le gambe a cavalcioni. Eravamo uno di fronte all’altro e i nostri cazzi erano vicinissimo, si toccavano. C’era un principio di intimità, o di complicità, che fino a quel momento non avevamo mai conosciuto. Era diverso anche da quella volta che tu venisti a casa mia, un anno e mezzo prima, quando la scoperta dei nostri corpi assomigliava più a un gioco. Ti masturbai così, seduto su di te. Forse ti accarezzai i capelli. Fu dolce, per quello che mi ricordo. Dalle finestre vedevo il cielo chiarissimo e nemmeno una nuvola. A casa i miei mi aspettavano per pranzo. Presto saremmo tornati a scuola e io mi sarei innamorato. Qualcosa stava finendo – ero pronto – e qualcosa  stava iniziando…

Negazione?

Continuammo così per un anno e mezzo, prima che di nuovo tutto cambiasse. Periodicamente, a metà pomeriggio uno dei due suonava al campanello dell’altro (allora non esistevano i cellulari per poter messaggiare), camminavamo per un’ora o due, in giro per il nostro quartiere, avanti e indietro, e poi… Entrambi sapevamo, ne sono convinto, qual era il motivo del nostro incontro. Quando sentivamo che stava arrivando l’ora di tornare a casa per la cena, iniziavamo ad avvicinarci verso le zone più nascoste, oppure con una scusa andavamo nel garage di casa tua, o nella cantina della mia. Con il tempo, si creò un rituale.
“Come sei messo a pippe?” chiedeva uno dei due.
L’altro faceva un resoconto: “è da martedì che non me ne faccio una” oppure “una questo pomeriggio”.
Poi ci appartavamo. Era la seconda fase del rito.
“Come ce l’hai?”
“Un po’ duro”.
“Sentiamo?”. Mano sopra i pantaloni; poi mano nella tasca dell’altro.
Silenziosamente, cercavamo un posto più sicuro.
Poi: “Godi?” mi chiedevi mentre me lo stringevi.
Mi faceva sorridere, questa domanda. Non era il nostro modo di parlare, quello (ma ora mi basta pensarci per risentire quell’eccitazione).
Terza parte del rito. L’apertura reciproca delle cinture, dei jeans, l’abbassamento delle mutande. Qualche volta ci toccavamo il sedere; qualche volta osavamo infilarci un dito dietro, giusto la prima falange.
In pochi minuti arrivavamo alla fine. Quindi ci pulivamo con quello che si trovava (solitamente tu eri più organizzato: fazzolettini, o un pezzo di carta).
Ci salutavamo in fretta, imbarazzati. Mi sentivo sempre in colpa e mi ripromettevo che non ti avrei più cercato. Durava poco, però: qualche settimana, al massimo un mese, e poi tornavo da te.

Comunque, negavamo; o, almeno, io ero molto impegnato in questa attività. Una sera (ricordo esattamente il punto in cui eravamo) te ne parlai.
“Non siamo omosessuali”.
“No, è vero, non lo siamo”.
“Non ci baciamo mai, non ce lo prendiamo in bocca, non ce lo mettiamo dietro”.
“Infatti”.
In quei mesi, però, non riuscivo a fare il passo successivo, e domandarmi: cos’eravamo, allora? Chi eravamo? Da parte mia, continuavo a innamorarmi perdutamente di un sacco di ragazze e sognavo di averne una. Quel sentimento non era una convenzione, un omaggio all’uso comune, il bisogno di essere accettati, il tentativo di iniziare una vita forzatamente eterosessuale. Però continuavo a venire da te, con un sentimento completamente diverso. Mi piaceva il profumo delle ragazze, le loro labbra; il tuo odore mi era indifferente. Tra me e me forse mi dicevo che si trattava solo di un diversivo, un modo per ingannare il tempo, una sorta di allenamento prima di un rapporto “normale” con una ragazza qualsiasi. A distanza di tanto tempo, non so dire cosa venne prima – l’essere salito con te sulla terrazza o il mio desiderio di te. Sarebbe stato lo stesso se non fossimo saliti lì sopra, in quella serata di primavera? C’è una sorta di percorso di formazione, nel sesso, che determina, attraverso eventi casuali, il punto di arrivo? In altre parole: se invece di aver conosciuto te, per primo, avessi incontrato una ragazza, e con lei avessi fatto tutto quello che feci con te, sarebbe cambiato qualcosa? Oppure, anche se non ti avessi conosciuto, qualcuno avrebbe comunque occupato lo spazio che ora tu hai nella mia vita sentimentale, reale e immaginaria? E se non fosse arrivato nessuno, se nessuno mi avesse raccontato le sue avventure estive, e io non fossi stato tentato da nessuno, avrei avuto il vuoto che sento ora per la tua mancanza? Non negavo solo per paura: negavo perché sentivo che ciò che mi spingeva a cercarti aveva una consistenza diversa dal mio desiderio di una ragazza. Piani diversi. Allora, però, non mi era chiaro. Mi stavo formando, definendo, forgiando. Se avessi chiuso gli occhi, e avessi provato a immaginare il mio futuro un anno dopo, a quindici anni, non avrei visto te. Mick Jagger diceva che autorizzava chiunque ad ammazzarlo nel caso fosse salito sul palco a cantare Satisfaction dopo i cinquant’anni: le cose non sono andate così, neanche per lui. Ero convinto che si trattava solo di un evento passeggero, di qualcosa di transitorio che velocemente sarebbe finito. A distanza di tanti anni, posso dire che non sbagliavo a pensarla così: le cose sarebbero potute andare veramente in quel modo, io e te che ci perdiamo di vista dopo una stupida stagione passata a farci seghe insieme. Ora, però, so che non fu così – che al centro del mio desiderio per te c’era qualcosa di più solido, coriaceo, persistente: non era qualcosa che aveva a che fare con le circostanze della vita, ma con la mia essenza di essere umano. Andammo avanti così ancora un anno e mezzo, masturbandoci insieme una o due volte al mese; poi mi trovai la ragazza, un amore totale e travolgente, e mi convinsi che tu eri un capitolo chiuso della mia vita. Per sei mesi non ti cercai; poi, come tutti gli anni, arrivò di nuovo l’estate.

A questo punto

Nella ricostruzione del proprio passato, di quello rimosso, trattenuto, nascosto, vedo con chiarezza il me di allora – il ragazzino incerto, il diciottenne che credeva di essere già grande, il venticinquenne imprigionato in un rapporto asfissiante con una donna che presto avrebbe sposato, il ventinovenne confuso per il matrimonio sfumato, il trentenne finalmente libero di cogliere ciò che avrebbe voluto, e che nulla colse. Ma c’è un errore di fondo, nel ricordo: quando mi rimetto nei panni dell’individuo che ero, quando cerco di ridiventare la persona che in quel momento si trovava sul punto di vivere qualcosa, ho un terribile vantaggio capace di falsare qualsiasi ricostruzione. Io, infatti, so cosa è successo dopo: io, adesso, vedo il futuro di quel “me” che ero allora. Quando andai sulla terrazza con te, in aprile (ancora questa storia, ma è da lì che bisogna partire, perché è quello il bivio più importante della mia vita sentimentale) avevo davanti a me almeno due scelte: salire, o non salire. Ripercorro (per l’ultima volta, lo giuro, poi passerò ai fatti successivi) quella particolare sequenza di eventi: abbiamo passeggiato per diverse sere, parlando dell’esperienza che avevi avuto con un tuo cugino al mare – ti eri fatto masturbare da lui (pensa che ricordo ancora il punto esatto in cui me lo dicesti). Interpretai quella tua confessione, divertita e leggera, come l’apertura di una porta, l’indicazione di una possibilità. Non me lo stavi dicendo apertamente, che avresti voluto, o comunque potuto, fare lo stesso con me; eppure ora so che tu allora “mi volevi”, volevi provare a farlo con me. Me lo stavi dicendo. Volevi prendermelo in mano, e che io prendessi in mano il tuo. Non è questo il motore del mondo? Desiderare ed essere desiderati? Mentre me lo dicevi mi chiedevo se stavo capendo bene – la domanda che tutti, un attimo prima di aprire le labbra per dare il primo bacio – si pongono. Sto capendo bene?
Poi andammo in terrazza, e io ti diedi le spalle. Avevo resistito alla tua proposta, in qualche modo. Certo, ci eravamo masturbati, ma a dieci metri di distanza, senza guardarci, senza toccarci. Tecnicamente non accadde nulla. Quand’è che iniziai a pentirmi di non essere andato un po’ più avanti? Di aver detto di no quando mi avevi chiesto se volevo mostrartelo? Qualche sera dopo, tornammo nuovamente a passeggiare, a parlare, a stuzzicarci. Questa volta, però, sapevo che sarebbe andata diversamente. Prima di salire nella terrazza ce l’avevo già duro. Avevo una tuta ed era impossibile nasconderlo. Io mi misi una mano nei pantaloni e me lo toccai. Tu mi hai chiesto se me lo stavo toccando e io ti ho detto di sì. Poi siamo saliti. La terrazza era lunga una trentina di metri, io credo. Noi ci piazzammo sul lato sinistro, più o meno in corrispondenza della seconda finestra, con il viso rivolto verso il muretto bianco davanti. Tu eri alla mia sinistra. Ognuno se lo tirò fuori per conto proprio e iniziammo a masturbarci. Ero eccitato ma non ero imbarazzato: ci conoscevamo da sempre. Poi tu mi chiedesti se potevi sentire come ce la avevo – e io ho detto sì. Questo è stato il momento esatto in cui tutto è iniziato. Un attimo prima non era mai successo; un attimo dopo tu avevi il mio cazzo in mano e subito dopo io avevo in mano il tuo. Tu avevi chiesto e io avevo detto di sì. Tu mi avevi parlato di tuo cugino al mare e io ti avevo ascoltato e avevo immaginato, e sperato di aver capito giusto. Mi avevi proposto di andare in terrazza una prima volta, io avevo detto di sì ma ti avevo dato le spalle. Qualche giorno dopo ci siamo tornati (e sono quasi sicuro di essere stato io a cercarti), io ce l’avevo già duro ancora prima di salire, e quando siamo arrivati su, e tu mi hai chiesto se potevi toccarmelo, ti ho detto di sì. Potrei arrivare a scomporre ulteriormente questa sequenza dei fatti? Ricordo che tu eri allegro – una nota che con il tempo hai perso. Ricordo che ce l’avevi più piccolo del mio e che tu dicesti che ce l’avevo grosso (cosa di cui, poi, sono stato convinto per molto tempo, anche se con il senno di poi…). Ricordo che tu venisti prima di me – sarebbe successo così per quasi tutto il primo anno di masturbazioni reciproche. I pantaloni della mia tuta erano azzurri, di quell’azzurro inverosimile che si usava negli anni ottanta. Ricordo che mi mancava il fiato. Ricordo che mi era piaciuto. Cosa sapevo allora di quello che sarebbe successo dopo? Allora vedevo il 2018 come un anno da fantascienza. Potevo immaginare che a 47 anni avrei dedicato tutto questo tempo a coltivare il ricordo di noi due, amore mio?

 

terrazza

A casa da soli

Dopo la prima volta, se così si può dire, dopo la prima masturbazione reciproca nella grande terrazza del palazzo davanti casa, una sera di aprile, nel 1984, ci sono state altre volte – ricordo qualcosa nel suo garage, forse un’altra volta in terrazza, sempre di sera, al buio, in silenzio. Eravamo ragazzini che lentamente, attraverso successivi tentativi, ci addentravamo nel mondo dell’amore, o del sesso, o di entrambe le cose. A maggio, sempre in una di quelle serate primaverili in cui tutto si risvegliava, siamo andati in un’altra terrazza. Allora, si era padroni dello spazio in cui si viveva… Ogni angolo del quartiere era collegato a un altro angolo del quartiere attraverso passaggi segreti, buchi sulle reti, porticine che si aprivano semplicemente spingendo. Gli anni precedenti giocavamo a nascondino, tra quelle strade, ne conoscevamo ogni segreto; e ora che stavamo crescendo, ora che il desiderio prendeva spazi sempre più grandi delle nostre vite, quegli stessi luoghi offrivano riparo per quegli incontri…
Ci avvicinavamo con lentezza, al momento in cui ci saremmo toccati. Camminavamo per molto tempo, parlando. Mi facevo raccontare qualcosa delle tue esperienze. Per anni ogni estate eri andato in vacanza da parenti, credo, o da amici di famiglia. Lì c’era un cugino più piccolo di te. Una sera, mi avevi detto, ti eri fatto masturbare. Me lo raccontavi con naturalezza… Me lo dicevi perché avevi voglia di me, in quel momento? Perché mi volevi stuzzicare, farmi capire che ti sarebbe piaciuto farlo anche con me? Mi eccitava sentirti parlare…. E intanto continuavamo a camminare per il nostro quartiere, e talvolta ci spingevamo fino al centro. Entrambi, credo, pensavamo a quello che ci aspettava, anche se nessuno di noi due ne faceva parola.
“Ti va se andiamo a vedere un’altra terrazza?”
“Certo”.
Allora salivamo di nascosto per le scale di un palazzo (e io ti vedevo salire davanti a me…) e una volta arrivati guardavamo il quartiere dall’alto e non dicevamo niente. Poi io mi avvicinavo a te, o tu ti avvicinavi a me, ti mettevo una mano sui pantaloni e ti chiedevo sottovoce “Come ce l’hai?” e lo sentivo che ce l’avevi già duro… Mi mettevi la mano sul mio e dicevi “Bello”. Ti slacciavo la cintura, tu slacciavi la mia, ti aprivo il bottone dei jeans, tu sbottonavi i miei, ti abbassavo gli slip e tu abbassavi i miei, e poi eravamo uno davanti all’altro, ciascuno con il cazzo nella mano dell’altro – ciascuno con il cazzo dell’altro in mano – e iniziavamo ad andare su e giù. Non ci toccavamo se non là sotto, non c’era nulla che assomigliasse alla tenerezza e neppure alla sensualità: questa mancanza sarebbe diventato, con gli anni, un spina conficcata nel mio fianco, e solo nel mio. In quella seconda terrazza, più piccola, tu venisti quasi subito. Io allora mi sedetti sul bordo di una specie di panchina e continuai da solo; tu, intanto, ballavi imitando Micheal Jackson. Ricordo ogni cosa. Avevi un paio di jeans bianchi (allora si usava) ed eri abbronzato.
Ma fu in luglio che qualcosa cambiò. Ero in vacanza in montagna con la mia famiglia e per non so quale motivo, tornai a casa in treno: forse dovevo ritirare qualche documento legato al mio recente diploma di terza media…. Non era la prima volta che viaggiavo da solo. Arrivato a casa, mi sciacquai, mangiai qualcosa e poi venni a suonarti il campanello. Andammo su da me. Erano le nove di sera. Per la prima volta, eravamo completamente nudi e in un luogo illuminato. Se dovessi dire cos’era, quello che facemmo allora, non direi “sesso” – non fino in fondo. C’era un aspetto ludico imprescindibile. Stavamo giocando come se fossimo grandi, ripetendo le cose che avevamo visto nei giornali porno rubati ai fratelli maggiori. Provai a penetrarti – tu eri in piedi, davanti al divano del salotto – e un po’ spinsi ma inutilmente. Non sapevamo come fare. Forse ti baciai una natica, per scherzo, o ci provai e mi fermai. Forse, già allora desideravo leccarti lì dietro. Ci distendemmo sul divano, ci rialzammo. Ci strusciammo, sempre nudi, ma eravamo impacciati – non sapevamo bene cosa avremmo potuto fare. Alla fine andammo in bagno. Tu eri davanti a me. Presi i nostri cazzi e li misi uno accanto all’altro, insieme, attaccati, e iniziai a masturbarci – era come se avessi sempre voluto farlo, anche se non ci avevo mai pensato realmente. Era il bagno di casa mia, quello: lì c’era la vasca da bagno dove mi ero lavato fin da quando ero bambino; lì c’era il bicchiere con gli spazzolini di tutta la mia famiglia, la specchiera e i trucchi di mia madre; lì, venimmo insieme in una notte di luglio di trentaquattro anni fa.
Poi scendemmo insieme, incontrammo degli amici comuni, scherzammo; c’era anche una ragazza che mi piaceva da sempre, e giocando le toccai una tetta. Si chiamava Giorgia. La notte la sognai – sognai di leccargliela. Il ciuffetto del pube non era morbido ma assomigliava a un corallo, in quel sogno: glielo toccavo con il naso. La mattina dopo mi svegliai con il languore che accompagna i sogni in cui ci si innamora di qualcuno che non esiste. Poco dopo arrivò anche mio padre e insieme tornammo in montagna. Durante il viaggio mi disse che stavo diventando un bravo ragazzo. Io ripensavo a Giorgia, alla sua tetta e al suo pube di corallo, e poi, con un desiderio diverso – più torbido e più profondo –  al tuo cazzo, Enrico, e al mio cazzo insieme, stretti nella mia mano.

Non è semplice iniziare

Non è semplice iniziare. Da dove? Da quando? Era il 1984, eravamo due adolescenti – tu bello, io brufoloso – e una sera siamo saliti sulla grande terrazza di un palazzo dalle parti di casa nostra e abbiamo cominciato. Tu, me lo avevi raccontato nelle sere precedenti, mentre passeggiavamo per il quartiere, dopo cena, tu avevi avuto già “esperienze”: allora me ne raccontasti due o tre, le più miti (solo negli anni successivi mi confessasti tutto il resto, sotto la mia insistente richiesta), e io sentivo la voglia montare.
La prima volta, mi masturbai di spalle; tu, a una decina di metri da me, facevi altrettanto. Tu mi sembravi disinibito e curioso; io, invece, mi vergognavo di mostrartelo – eppure ce l’avevo in mano, duro: avevo già attraversato quella piccola soglia che separa il mondo dell’infanzia da quello in cui il desiderio viene messe al centro di ogni cosa. Tu venisti per primo, io poco dopo, un po’ impacciato. Mi impiastricciai le dita per l’emozione. Scendemmo le scale, silenziosi, e andammo a lavarci le mani. Mi chiedesti se mi era piaciuto e io dissi di sì. Poi, quando tornai a casa, andai in camera a salutare i miei genitori: dalla loro finestra vedevo la terrazza dove eravamo stati fino a pochi minuti prima – dove tutto (ora lo so) stava per iniziare.
Ci conoscevamo da quando avevamo due anni, io credo. Vicini di casa da sempre. Tu eri sempre stato bello, un viso angelico, i riccioli, il sorriso dolce. Credo di aver iniziato a desiderarti in seconda media – di aver realizzato, vagamente, in modo confuso, la mia attrazione nei tuoi confronti. In un’età in cui il sesso è ancora un esperimento, io ti pensavo – non in modo esclusivo, certo: quando ero in bagno, e mi facevo una sega, chiudevo gli occhi e pensavo alle mie compagne di classe che me lo succhiavano. Così quando tu mi hai chiesto di andare in terrazza – tu avevi già compiuto 14 anni, a me mancava qualche mese – di salire per andare a farci una pippa, come dicevi, fu come realizzare un piccolo sogno.
Qualche settimana dopo tornammo su in terrazza, sempre di sera – era bello come ci potevamo muovere liberamente per le nostre strade – e quella volta te lo toccai e tu me lo prendesti in mano. A distanza di più di trent’anni, quel momento è rimasto intatto. E se da un lato ci sono due ragazzi che si masturbano a vicenda – un gesto meccanico tutto sommato di poco conto – dall’altro era in atto un processo di definizione di me stesso. Io non ero là per caso; non ero stato trascinato da qualcuno, non era successo in modi che ora non riesco a ricostruire. Lo volevo, lo desideravo, desideravo essere là accanto a te, con i nostri cazzi in mano – e non so dire quale sia il significato di quel momento, che cosa potesse determinare quell’intimità allegra, nuova… So che fu un atto fondativo della mia esistenza. Che paroloni, no? Ho sempre avuto questa tendenza a trovare una filosofia per spiegare ogni cosa…. Eppure, credimi, non c’è alcuna forzatura in questo. Sento, con tutto me stesso, che la mia anima cercava quel momento; che seppure allora non sapeva fino in fondo ciò a cui aspirava, aveva trovato il modo per emergere.

Questo blog è dedicato alla mia storia con te. Non c’è nessun “noi” – il rapporto fu, da subito, asimmetrico  perché l’amore – e ora so che è di questo che si trattava – era solo mio. Proust aveva la sua madeleine; io, partendo dal tuo cazzo che non vedo, non tocco, e non succhio da più di 17 anni, intendo ricostruire la mia vita che fu sempre parallela. Non farò nomi, se non il tuo, Enrico (solo a leggere queste lettere sento la frequenza del battito che aumenta). Sarà un viaggio solitario, di riscoperta e di svelamento…